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Colleghi, prima e dopo la pandemia

Scritto da Redazione di LinC | 22/02/23 11.11

Mentre stiamo mettendo in pagina una rivista, siamo in collegamento su Meet. Schermo condiviso, il file InDesign aperto, guardo che sia tutto sensato. Il parlato è troppo lungo, serve ridurlo. Lui, Leonardo, l’art director, mentre riscrivo il testo, ne approfitta per mangiare una crêpe. L’ha fatta lui, mi racconta, ha preso l’abitudine durante il lockdown, quando il tempo era molto e le possibilità di svagarsi molto poche. Solo albumi e farina d’avena. Me la mostra, vedo la sua cucina e i libri appoggiati sul tavolo. Non sono mai stata a casa sua, prima del secondo inverno di pandemia ha deciso di abbandonare Milano ed è tornato in Veneto. Una questione di qualità della vita e di neonata passione per la bicicletta, un po’ difficile da coltivare se vivi in una città di due milioni e mezzo di abitanti. Prima ci vedevamo tutti i giorni in ufficio, poi quando serviva attraverso uno schermo, dalle rispettive case. Ora io sono nell’open space della redazione, con le cuffie, provando a non disturbare troppo gli altri colleghi mentre lui è lì, e si prepara le crêpes. Forse non avremmo mai avuto modo di avere l’intimità di mostrarci a casa, magari un po’ disordinata a parlare di ricette di colazioni proteiche. Forse per farlo avremmo atteso di chiudere la giornata, nel caso avessimo scelto di bere un bicchiere prima di andare ognuno nelle rispettive case, quasi sempre misteriose. Oppure durante una pausa caffè, davanti la macchinetta, ma si sa, in quei casi quasi sempre l’attenzione è spostata sulle cose da fare, le scadenze, qualche lamentela o sfogo da eccessivo stress.

Sembra assurdo che durante lo smart working, che per tutti ha significato una maggiore atomizzazione del lavoro, l’informalità tra colleghi sia cambiata. È cambiata, non si è cancellata. Forse addirittura aumentata. Ce ne siamo resi conto dopo, quando siamo ritornati in ufficio. Per mesi, legati soltanto da mail e da call molti hanno temuto di aver perso alcune di quelle connessioni che in qualche modo rendevano più leggere le ore passate sul posto di lavoro. «Si sono perse le chiacchiere, le cosiddette “little talk”», si leggeva in più di qualche articolo uscito durante quei due anni di pandemia infuriante. In effetti era un po’ complicato trovare spazio per questo, soprattutto all’inizio, quando in mezzo alla confusione e allo stress di non staccare mai, soprattutto chi viveva da solo si è ritrovato costretto a ridisegnare le sue relazioni, inventare nuovi metodi, fare Zoom anche con gli amici o con i genitori, anche loro chiusi da qualche parte in Italia. Dopo mesi di smart working totale eravamo arrivati, quasi tutti, a odiare (si fa per dire) ogni singolo collega. Iper stressati, punzecchiati da continue call, telefonate, messaggini anche sul telefono privato, traumatizzati da interpretazioni a volte fantasiose di email troppo assertive. Lavorare da casa era diventato un filone di meme e di vignette satiriche sui giornali e sui social di tutto il mondo. L’aggiunta di frasi del tipo «spero che questa email ti trovi bene» non ha che peggiorato la situazione. E invece non è andata così. «Numerosi studi hanno dimostrato l’importanza per i dipendenti di intrattenere rapporti amichevoli nell’ambiente di lavoro, in misura addirittura superiore agli incentivi economici e benefit aziendali. Le persone hanno bisogno di costruire relazioni profonde con i colleghi per dare un senso alla loro adesione al gruppo e identificazione con l’organizzazione. Non solo, questo si ripercuote positivamente sulla produttività individuale e sulla soddisfazione dei dipendenti, i quali percepiscono di essere supportati in situazioni di stress nonché nella crescita personale e lavorativa», afferma Tommasina Pianese, ricercatrice al Cnr ISMed ed esperta di smart working e management aziendale. La pandemia ha reso più difficile rimanere in contatto, ma ci ha anche spinto a renderci conto di quanto fosse fondamentale farlo non solo al lavoro, ma anche a casa e nelle nostre comunità. Su questo, Laysha Ward dice a CNBC Make It: «Ora più che mai abbiamo bisogno di relazioni umane nuove, fuori dalla pandemia e nel mezzo dell’incertezza che sta accadendo in tutto il mondo». Ward ha più di 30 anni di esperienza nella costruzione di connessioni professionali e sa che non tutti stanno avendo vita facile. Ma sentirsi in contatto con i colleghi aiuta le persone a sentirsi più soddisfatte sul lavoro, in particolare durante un periodo di elevato turnover nel mercato del lavoro. «Credo che quando i dipendenti sentono di appartenere a qualcosa, sono più coinvolti, si comportano meglio e hanno maggiori probabilità di rimanere – afferma Ward. «Anche al di fuori del posto di lavoro, oggi abbiamo bisogno di quel senso di appartenenza e di comunità». Forse anche per questo, nonostante tutto, anche da chiusi in casa abbiamo provato a ricostruire il nostro tessuto relazionale, soprattutto con le persone con cui avevamo legato anche prima e abbiamo iniziato a chiacchierare di crêpes all’avena.

Quando si è ritornati in presenza, un po’ a malavoglia, un po’ diffidenti nei confronti di qualsiasi colpo di tosse o di starnuto, un po’ impigriti dal dover dismettere pantaloni comodi e maxi maglioni in favore di qualcosa di più formale, ci si guardava con un po’ di circospezione. Ci comportavamo un po’ come dei nuovi selvaggi introversi, negli uffici aleggiava un silenzio inverosimile, anche in quegli open space che, come detto qualche riga più sopra, fanno così presto a riempirsi di voci, di richieste, di suonerie del telefono. Dovevamo abituarci, o meglio, ri-abituarci a un nuovo modo di vivere il lavoro, gli spazi comuni e i colleghi stessi. E in questo re-design non potevano che rientrare anche le relazioni. «Io ho notato una grossa differenza tra il prima e il dopo l’estate 2022 – racconta Stefania, 36 anni, che lavora in una grande azienda legata all’editoria. «Prima c’era molta lontananza, c’erano anche meno cose da raccontarsi, dopotutto la vita fuori dal lavoro era ancora in fase di ripresa. In quel periodo si sono creati dei microgruppi, ci si organizzava per essere presenti lo stesso giorno, per il piacere di stare insieme. Rientrando completamente in presenza temevo sarebbero ricominciati anche quei meccanismi un po’ tossici pre-pandemia, invece non è successo, forse perché sono subentrate delle altre priorità nella vita, con la conseguenza che si è ritrovato il piacere di stare insieme, più di prima».

Aggiunge Federico, 32 anni, che lavora in una tech company: «Premetto che secondo me ci si renderà sempre più conto di quanto lo smart working sia utile sia per il lavoratore che per l’azienda. Nonostante questo, è vero, io ho cominciato questo nuovo lavoro a inizio 2021 e mi sono reso conto che ho faticato a entrare in quelle dinamiche che invece sono molto più naturali se lavori in compresenza. Tutto deve essere programmato o comunque intenzionale. Ci ha reso più disciplinati forse, però manca molto quell’aspetto di casualità, lo scambiarsi una battuta, ascoltare, essere buttati dentro una riunione all’ultimo». Lo stesso di cui è convinta Bianca, 36 anni, che ha cambiato lavoro anche lei alla fine della pandemia e da una multinazionale pubblicitaria ora lavora in una talent agency. «In generale noto che si tendono a creare momenti di aggregazione più organizzati. Prima della pandemia, dopo giornate lunghissime si usciva dall’ufficio insieme, tornavo a casa quasi sempre tardi. Ora invece l’effetto è che si ha proprio voglia di passare quel tempo con gli altri, ci si organizza quasi come se si fosse un gruppo di amici».

Sembra quasi un controsenso che si sia iniziato a parlare più frequentemente della cosiddetta “colleganza” proprio quando sembrava essere sparita. Ma forse è come sempre come quando le cose le perdi, che ti rendi conto che esistevano, le davi per scontate ma erano importantissime. Come sempre, le cose importanti non finiscono ma cambiano forma, adattandosi meglio a ciò di cui abbiamo bisogno in quel determinato momento, a quello che siamo diventati. Forse oggi la colleganza è un qualcosa di più delicato, più mediato, frutto forse di maggiori attenzioni, è meno casuale e più intenzionale. È il risultato di una sorta di decluttering umano. Forse durante quel periodo complesso abbiamo buttato via quello che non ci piaceva più, di cui ci siamo resi conto di non avere bisogno, in favore di una maggiore selezione che ci ha visto decidere a cosa dedicare il nostro tempo, e anche a quali persone. Rapporti paradossalmente più intimi anche con i colleghi vanno di pari passo con una maggiore attenzione nei loro confronti, dei loro ritmi e delle loro necessità che, come le nostre, mettono insieme obiettivi professionali e vita privata. Forse non è un caso se in questi mesi di “ritorno” ci siamo ritrovati a parlare anche di cose più intime di prima con i colleghi che alla fine sono gli stessi che c’erano anche un paio di anni fa. Ma sono cambiati anche loro, dopotutto. Come se avendo mostrato tutti il fianco, lo stress, le case disordinate, i maglioni con i buchi, ora avessimo meno filtri e remore nel mostrarci nella nostra interezza. Forse avremo disimparato a fare “little talk” e forse sarà più difficile innamorarsi per caso di un collega, ma magari siamo diventati più noi stessi, anche sul posto di lavoro.

 

*La foto di copertina è stata scattata da Claudia Ferri