Sempre più lavoratori decidono di dimettersi. Un fenomeno globale che riguarda anche il nostro Paese, i cui numeri sono significativi proprio perché si verificano nonostante l’alto tasso di disoccupazione, nonostante la rigidità del mercato del lavoro, nonostante il mismatch di competenze e professionalità che rende fragile l’impiegabilità di gran parte dei lavoratori, e nonostante la scarsa propensione alla mobilità degli italiani. Le dimissioni nel nostro Paese sono preoccupanti proprio perché sono solo la punta dell’iceberg, il sintomo di un disagio ben più profondo. A dare le dimissioni da noi sono coloro che non ne possono proprio più, o che hanno in mano valide alternative, ma sono molti di più coloro che vorrebbero lasciare il lavoro e, proprio per le sopra citate rigidità, restano, senza entusiasmo né motivazione. Sono persone che per necessità “vanno al lavoro”, un lavoro che sentono però non rappresentarli più. È il fenomeno del cosiddetto quiet quitting, l’abbandono silenzioso: deluse dal loro lavoro e spesso frustrate dalla difficoltà a cambiarlo, le persone restano ma si spengono; sono disposte a svolgere solo lo stretto indispensabile, rifiutando di assumersi ulteriori oneri e responsabilità e, soprattutto, di mettersi in gioco per il cambiamento. Un fenomeno che è per certi versi ancora più preoccupante delle dimissioni in un momento come questo in cui la capacità di un’azienda di innovare ed evolvere per rispondere al nuovo quadro della competizione rappresenta una condizione essenziale di sopravvivenza.
I numeri sono impressionanti: una recente ricerca condotta dall’Osservatorio HR del Politecnico di Milano stima che ben il 45% dei lavoratori ha cambiato lavoro negli ultimi dodici mesi (10%) o intende farlo nei prossimi sei o 18 mesi (rispettivamente il 10% e il 25%). L’aumento delle dimissioni, quindi, al di là di essere costoso in sé, va visto come un potente campanello di allarme, il segnale della necessità di un cambio di paradigma nei modelli organizzativi, nelle relazioni industriali, nel significato stesso del rapporto tra individui e organizzazioni.
Anche la sperimentazione di nuove modalità di lavoro rischia, se non condotta con coerenza e visione, di contribuire a generare questa necessità di cambiamento: obbligati dalla pandemia a lavorare da remoto molti lavoratori hanno sperimentato una versione, sebbene forzata ed emergenziale, di smart working che ha aperto loro gli occhi. Hanno scoperto che molte delle routine a cui da sempre si sottoponevano, convinti che fossero l’unico modo di “essere al lavoro”, non avevano in realtà senso. Hanno scoperto che le code nel traffico, le lunghe riunioni in presenza, le estenuanti trasferte, gli orari cadenzati, gli uffici rumorosi, le liturgie del controllo e della gerarchia, sono spesso convenzioni o strumenti di mantenimento di privilegi, ma non generano davvero valore. Hanno scoperto che un modo diverso e più intelligente, sostenibile di fare le cose c’è, ed è spesso sorprendentemente efficace. Sebbene, imperfetta e forzata, anche questa forma di smart working ha portato le persone a pensare, a chiedersi perché. C’è un modo più intelligente di svolgere le mie attività? C’è un luogo o un orario più appropriato che mi consente di generare più valore e stare meglio? Comunque si valuti ciò che è avvenuto, l’errore peggiore sarebbe ignorarlo, fare finta che questi due anni siano stati solo una parentesi, un “sogno”, bello o brutto, ma comunque “altro” dalla normalità. Se compresa e gestita in profondità questa crisi può essere un punto di svolta, l’occasione per progettare modelli organizzativi, sistemi di welfare e retribuzione, che non siano puro anestetico al lavoro o tentativi di separare dalla vita la spiacevole parentesi del lavoro.
Per fare questo occorre innanzitutto ascoltare, capire cosa chiedono davvero i lavoratori, sia quelli che danno le dimissioni, che quelli che decidono di restare. Se andiamo nel profondo scopriamo che la domanda fondamentale che muove i lavoratori è una ricerca di senso, di benessere, di realizzazione come persone a 360°. Coloro che danno le dimissioni in molti casi non lasciano solo un’azienda, un contratto di lavoro, ma lasciano un sistema di relazioni non appaganti, un territorio che non li accoglie, una vita in cui si sentono imprigionati e che non offre loro prospettive. Non ascoltare e comprendere questa crisi e non saperla interpretare con lungimiranza vuol dire inevitabilmente perdere competitività. Proprio per questo non siamo nel tempo delle grandi dimissioni, ma in quello delle grandi scelte, una sfida che riguarda tutti. Riguarda certamente le organizzazioni, pubbliche e private, che con la caduta dell’engagement rischiano di compromettere la propria competitività e attrattività. Riguarda le persone, che devono passare dal momento della consapevolezza e della voglia di evasione, alla concreta costruzione di un nuovo equilibrio di vita. Riguarda infine i Policy Maker che, piuttosto che rifugiarsi in slogan vuoti o impegnarsi in improbabili battaglie di retroguardia, devono avere il coraggio di promuovere una riforma del lavoro che faciliti e premi chi investe in professionalità e competenze, chi propone modelli di organizzazione del lavoro più moderni e inclusivi, chi si impegna a offrire un lavoro sostenibile e di qualità.
* Nell’immagine in evidenza un’illustrazione di Domenico Carnimeo