L’intervista a Beniamino Pagliaro, giornalista professionista e scrittore.
Tra i numerosi cambiamenti che il mercato del lavoro e le aziende stanno attraversando figura anche quello generazionale: professionisti di generazioni differenti si ritrovano a convivere nello stesso luogo di lavoro, condividendo però prospettive divergenti e molto spesso contrastanti. È necessario, quindi, allontanare i potenziali conflitti che potrebbero insorgere, abbracciando invece la dimensione del dialogo e della collaborazione tra colleghi, per assicurare un futuro sostenibile all’organizzazione.
Ma qual è il percorso da intraprendere? Che condizioni instaurare per fare in modo che generazioni diverse – due tra tutte, i cosiddetti boomers da un lato e i millennials dall’altro – si incontrino, imparino vicendevolmente e sperimentino innovativi metodi di lavoro? Ne abbiamo parlato con Beniamino Pagliaro, in occasione della pubblicazione del suo ultimo libro.
Penso che la questione generazionale sia fondamentale per chiunque abbia a cuore il presente e il futuro dell’Italia. Le distorsioni che si sono create per inerzia stanno generando quei problemi che tutti noi conosciamo a livello personale, ma che finora non hanno ottenuto le giuste attenzioni da parte della politica.
Il titolo menziona sette bugie sul futuro: quali sono e come sfatare i luoghi comuni collegati?
La prima bugia è la promessa. Tutti ci siamo sentiti dire che bastava studiare e tutto sarebbe andato bene. Purtroppo non è vero, perché mentre i millennials entravano nel mercato del lavoro, l’Italia iniziava ad affrontare la complessità di un mercato internazionale e competitivo. Poi c’è la bugia della casa, dei contratti di lavoro, della pensione e infine la peggiore: quella che sia tutto già scritto e che dunque non serva a nulla provare a cambiare.
Può fornirci una descrizione delle due generazioni che nomina, Boomers da un lato e Millennials dall’altro? Quali sono le caratteristiche che li contraddistinguono nel mondo del lavoro?
I boomers sono i figli del boom economico, sono cresciuti in anni di grande espansione economica. I millennials sono quelli che hanno iniziato a lavorare negli anni Duemila. In verità penso che le caratteristiche siano per lo più frutto di pregiudizi, cliché pigri, come per esempio il boomer che non sa usare la tecnologia e il millennial sfaticato. Non è così, non si può generalizzare. Sicuramente i boomers sono stati abituati a lavorare tutta la vita in un’unica azienda, mentre i millennials non danno nulla per scontato. Possono rispettare profondamente un capo ma non vogliono restare in ufficio fino a tardi, per esempio, solo per farsi vedere.
Quali competenze e skills i primi possono apprendere dai secondi, e viceversa?
Dipende sempre dai singoli casi, è complicato generalizzare. Forse i millennials possono imparare dalla capacità di concentrazione dei loro colleghi, e a loro volta i boomers possono apprendere le skills trasversali e il problem solving a cui sono abituati i millennials.
Quali metodi le organizzazioni possono adottare per favorire il dialogo intergenerazionale tra i loro dipendenti?
Il primo passo è parlarne. Capire che c’è un problema, o se non altro un’opportunità. Organizzare incontri, investire del tempo, fare domande e porsi degli obiettivi credibili e misurabili, con metodo e non solo con delle buone intenzioni generiche.
Quali sono gli errori commessi in passato in simili circostanze da non ripetere oggi?
Sicuramente non ascoltare le persone fa sempre dei danni alla comunità aziendale. Nel libro cito un caso aziendale specifico, dove una survey interna, grazie al voto dei millennials, portò maggiore flessibilità sugli orari e sul lavoro da remoto. Tutte armi poi diventate necessarie quando arrivò la pandemia nel 2020.
Dal suo osservatorio, quale futuro si prospetta per il mercato del lavoro italiano?
Voglio essere ottimista, ma con un grande interrogativo. Se affrontiamo assieme il tema del gap generazionale nei salari e nelle opportunità, così come è doveroso fare anche per il gender gap, penso che le risposte possano essere molto positive. Ma dobbiamo abbandonare le ideologie e i cliché, guardare i numeri e risolvere i problemi.
Perché le distorsioni, di fatto, ci sono e non possono essere ignorate: lo dimostra l’evoluzione della spesa statale nazionale per le pensioni, considerata come percentuale del prodotto interno lordo. Per assicurare sostenibilità all’intero sistema paese, è imperativo intervenire sull’economia, da qui ai prossimi decenni, investendo sulla crescita. Come indica lo stesso Pagliaro in un passaggio di Boomers contro Millenials – edito da HarperCollins Italia e pubblicato in accordo con l’Agenzia Letteraria Italiana – «siamo così poco abituati a pensare al futuro che una consapevolezza così netta sull’evoluzione del Paese nei prossimi vent’anni appare quasi cruda, spietata. I prossimi vent’anni sono già determinati. In verità la crescita del Paese, che significa più lavoro ma anche più valore aggiunto – si spera –, e migliori condizioni per chi lavora, è l’unico modo per non essere totalmente soggiogati agli impegni presi con il nostro debito pubblico, e dunque per evitare che gli anni dal 2030 al 2045 assomiglino incredibilmente a quelli tra il 2008 e il 2020, in cui lo Stato ha provato a ridurre la spesa il più possibile, producendo come conseguenza una generazione di sottopagati. Su questo i millennials mi sembrano più realisti, se vogliamo persino più cinici, ma efficaci. Sappiamo bene che chi viene dopo di noi dovrà stare meglio. Ma se è tutto così chiaro, se è tutto così in fondo prevedibile, perché non sembra avere alcun impatto sulle decisioni che prendiamo? Ci sono due opzioni: o il sistema politico diventa più maturo, fa un’enorme operazione di filtro rispetto alle reazioni più viscerali, oppure il grado di cultura economica della popolazione cresce in maniera drammatica. Sono cose di buon senso, dopotutto. Non sarà una sorpresa, siamo di nuovo di fronte a un problema culturale».