Negli ultimi decenni, soprattutto dopo la crisi del 2008-2009, l’Italia ha tagliato molto le risorse destinate all’università. Si sono ridotti gli immatricolati, è cresciuto il costo degli studi, molti giovani ricercatori sono stati costretti alla precarietà e alla fuga. Il sistema universitario italiano è stato costantemente sottofinanziato rispetto a quello dei paesi europei. Dal 2008 la spesa pubblica italiana per l’università si è ridotta dell’8%, in Germania è aumentata del 42%. A seguito del blocco del turnover, tra il 2008 e il 2016, i professori universitari sono passati da quasi 63.000 a meno di 49.000 – la riduzione più ampia tra quella sperimentata in tutti i comparti pubblici. Le conseguenze sono state ovvie. L’Italia ha tassi di passaggio dalla scuola superiore all’università particolarmente bassi e resta il fanalino di coda tra i paesi UE per la quota di laureati – il 29%, nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni.
Il dato italiano è superiore solo a quello della Romania (pari al 25%) e ancora ben lontano dall’obiettivo che Bruxelles si è prefissata entro il 2030: far salire al 45% entro il 2030 la media dei giovani che hanno completato l’istruzione universitaria. Lussemburgo (61%), seguito da Irlanda e Cipro (entrambi 58%), Lituania, Paesi Bassi e Belgio, Danimarca, Spagna, Francia, Slovenia e Svezia formano il gruppo di Stati che hanno raggiunto in anticipo l’obiettivo europeo. Il dato tedesco è poco sotto il 40%. Se guardiamo ai paesi OCSE (di cui fa parte l’Italia), in media in questi paesi la quota di giovani tra i 25 e i 34 anni con un titolo di studio terziario (laurea, master o dottorato, o equivalente) è aumentata dal 27% nel 2000 al 48% nel 2021, diventando il livello di conseguimento più comune tra i giovani adulti. L’Italia con il Messico è l’unico paese in cui il livello di istruzione terziaria tra i giovani adulti è inferiore al 30% e vicino ai dati OCSE di inizio secolo. Quella italiana ci pare dunque una situazione inaccettabile.
Un cospicuo finanziamento del nostro sistema universitario dovrebbe essere tra le misure di politica economica più importanti dato che, come ci dice la teoria economica: i) l’istruzione universitaria non solo è associata a una maggiore probabilità di occupazione ma anche a una maggiore retribuzione nell’arco della vita; ii) la formazione del capitale umano è uno dei fattori determinanti per la crescita economica e per lo sviluppo sociale e civile che, nel nostro paese, significherebbe anche ridurre i divari territoriali. Non ci pare la direzione verso cui sta puntando l’Italia. Il diritto allo studio è ancora una lontana chimera, con conseguenze nefaste anche in termini della poca produttività della forza lavoro nazionale rispetto a quella degli altri paesi che investono massicciamente nell’istruzione, sia universitaria sia quella obbligatoria e secondaria. Non dimentichiamo che in Italia la spesa pubblica per l’istruzione rappresenta il 3,9% del Pil, a fronte di una media UE del 4,7%. Anche il numero di borse di studio e i relativi importi che, come prevede la nostra Costituzione, dovrebbero permettere ai capaci e meritevoli di accedere all’università, anche se privi di mezzi, offrono un confronto impietoso con gli altri paesi europei. In Italia, la percentuale dei beneficiari di borse di studio sugli iscritti all’università è molto più bassa (circa il 13% a fronte del 34% in Francia), sia perché nel nostro paese sono più stringenti i requisiti di eleggibilità (merito e condizione economica) sia per un problema di sottofinanziamento. Gli spazi di autonomia concessi alle regioni – dopo la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001 – consentono altresì situazioni di soddisfacimento di questo diritto che risultano molto differenti tra le Regioni. Anche lo stesso PNRR non dedica importanti finanziamenti per accrescere il numero dei laureati (con qualche eccezione che mira a favorire l’ingresso delle donne nei corsi di laurea STEM) e aumentare la disponibilità di alloggi nelle residenze universitarie, anche queste molto poche in Italia. Il PNRR, circa 230 miliardi di risorse, dedica soprattutto risorse (circa 11 miliardi) per la ricerca al fine di creare reti e sinergie tra università e imprese.
La fragilità del nostro sistema universitario potrebbe aggravarsi ulteriormente per effetto del declino demografico italiano. Secondo gli ultimi dati dell’Istat, anche nel 2002 le nascite sono in calo (-1,9%). Siamo con una popolazione sotto i 59 milioni che potrebbe essere di 47 milioni intorno al 2070. Questa diminuzione ha intensità diverse tra il Nord e Sud. Nel 2070 la popolazione si contrarrà soprattutto nel Mezzogiorno (del 32%), mentre nel Nord diminuirà “solo” dell’11%, dove si conteranno 271 anziani ogni 100 giovani e nel Mezzogiorno 330 anziani ogni 100. Questa dinamica demografica così eterogenea non farà altro che accentuare il divario Nord-Sud sia in termini di coesione socio-territoriale sia in termini di competitività economica e capacità produttiva del Mezzogiorno. Se non dovesse aumentare la quota di laureati nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni (come detto ancora sotto il 30%) e in assenza di politiche pubbliche che mutino il quadro attuale, la sostenibilità finanziaria degli atenei e la ricchezza dell’offerta formativa dei corsi di laurea sarebbero a rischio nei prossimi decenni. Le simulazioni, sulla base delle tendenze demografiche prima richiamate, mostrano che le università del Mezzogiorno potrebbero perdere il 30 per cento degli iscritti nei prossimi anni e alcuni atenei rischierebbero la chiusura. In sostanza, un’ulteriore desertificazione delle università del Mezzogiorno che in questi anni hanno già subito una forte emorragia di studenti che sono andati a studiare al Nord, soprattutto perché gli atenei beneficiano del fatto di trovarsi in territori con molte più imprese e società di servizi innovative che hanno una migliore capacità di assorbimento di laureati. Le università nei territori sono degli asset significativi. L’importanza delle università non si ferma solo a chi la frequenta, ma svolge un ruolo fondamentale per lo sviluppo economico, civile e sociale dei territori dove si trovano. Se soltanto le università del Nord saranno in grado di attrarre capitale fisico e capitale umano, le disparità territoriali e le disuguaglianze in termini di opportunità per i giovani non potranno che aumentare. In sostanza, se non si introdurranno iniziative importanti, un’ulteriore desertificazione delle università del Mezzogiorno finirà per aggravare il divario Nord-Sud che dal 1861 non si è mai chiuso, tranne in qualche periodo storico.