Il destino del lavoro nell’era delle intelligenze artificiali, dell’automazione e della robotica è un argomento molto dibattuto e complesso, in quanto è ormai chiaro a tutti che la transizione digitale rappresenta un’opportunità e una sfida per tutte le realtà produttive e per la società stessa. Stiamo già assistendo a rapide e profonde trasformazioni, in molteplici tipologie di processi industriali, di prodotti e nei servizi, con esiti importanti sull’economia, sulla vita delle persone e sull’ambiente. Quale occasione migliore per riflettere sul tema se non oggi, lunedì 1° maggio?
Le “fabbriche del futuro” hanno iniziato a nascere e svilupparsi nell’ultimo decennio, principalmente nell’ambito manifatturiero e nella logistica, grazie alla convergenza tra le tecnologie informatiche e i sistemi di produzione. Questi nuovi sistemi produttivi, detti “cyber-fisici”, ma noti anche nel nostro paese con il nome di “Industria 4.0”, sono entusiasticamente e rapidamente cresciuti nella promessa di una maggiore efficienza tecnologica e una conseguente più ampia capacità ed efficacia produttiva. Promessa mantenuta, tanto da costituire spesso una soluzione preferibile all’operatore umano. Alcuni studi offrono modelli predittivi sui posti di lavoro che si perderebbero in Italia, dove la forte presenza di settori industriali manifatturieri rende il paese sensibile al fenomeno. Si parla di un minimo di 3.8 e di un massimo di 7 milioni di posti di lavoro che verrebbero meno nei prossimi anni. A livello globale, si parla di circa un miliardo di posti di lavoro che verranno completamente trasformati dalle tecnologie nel prossimo decennio. Ma i dati disponibili sono pochi e previsioni su quanto IA e automazione creeranno disoccupazione o su quanto nuovi lavori emergeranno dalle mutate richieste del mercato appaiono azzardate, anche a causa degli sconvolgimenti dovuti al Covid 19 e ai drammatici conflitti in corso, che rendono i dati disponibili di difficile interpretazione.
A livello globale sono tuttavia ben visibili alcuni cambiamenti sulle dimensioni e sulla natura stessa del lavoro umano. La great resignation è un fenomeno di dimissioni di massa iniziato nel 2021 che si è mosso in controtendenza rispetto a precedenti fenomeni occupazionali: in periodi di crisi, infatti, le dimissioni volontarie dal posto di lavoro hanno sempre registrato un calo. Tra i motivi più citati per queste dimissioni di massa vi sono la stagnazione salariale, l’aumento del costo della vita, limitate opportunità di avanzamento di carriera, ambienti di lavoro ostili, mancanza di benefici non economici, politiche di lavoro a distanza poco flessibili e un’insoddisfazione generale sul lavoro a tempo indeterminato o comunque di lungo periodo. In risposta a questo fenomeno, le industrie hanno incrementato e accelerato il livello di adozione di automazione, e la richiesta di sistemi robotici e di soluzioni basate sull’intelligenza artificiale è esplosa.
Un altro fenomeno culturale, oggi virale e pervasivo in ogni ambito lavorativo, prende il nome di quiet quitting o di silent resignation. Non tutti possono permettersi di lasciare un lavoro e l’ “abbandono tranquillo” non comporta un vero e proprio abbandono dell’attività, ma coincide con un fortissimo disinvestimento sulle proprie mansioni professionali. Il lavoratore mira a fare lo stretto necessario per soddisfare le richieste dell’azienda, senza mai andare oltre, senza mai portarsi a casa pensieri o impegni lavorativi. Secondo una recente indagine (Gallup, 2022), oltre il 50% dei lavoratori americani si autodefinisce un quiet quitter: il fenomeno non solo è reale, ma è rapidamente divenuto un modello dominante. Culturalmente il quiet quitting rappresenta il rifiuto della mentalità, fino a oggi largamente dominante, della corsa senza fine per avere sempre più successo, del vivere sempre più velocemente per fare sempre più cose. Dal punto di vista dei dipendenti, significa non consentire a un datore di lavoro di estrarre dalla propria occupazione di più di quanto non si stia effettivamente pagando. È anche il rifiuto della rarefazione dei confini tra lavoro e tempo libero, assottigliato fino a scomparire dalla precedente ondata di tecnologie pervasive e onnipresenti (SMS, telefono mobile, chat, social). Una richiesta, almeno in parte subconscia, di bilanciamento tra lavoro-tempo libero (work-life balance), di riduzione del carico cognitivo, emozionale, sociale e relazionale generato dal lavoro.
Possiamo davvero pensare che la transizione digitale si limiti a un processo guidato dagli sviluppi della tecnologia (technology driven) con l’obiettivo unico di rendere più efficienti i sistemi di produzione? Possiamo credere che sia sostenibile una risposta ai problemi già pesanti dei lavoratori basata sul porre in contrapposizione capitale umano e tecnologia? Certamente no e serve probabilmente riprendere il posto del pilota.
Il tema dell’industria 5.0, o della società 5.0, offre una via, una piattaforma di riflessione e metodi innovativi per trovare soluzioni al tema della cultura del lavoro, del ruolo dell’impresa nella società, alla questione della sostenibilità ambientale e sociale, dei processi produttivi, della loro resilienza. Si tratta di riformulare la relazione tra la tecnologia e la società, tra tecnologie e lavoro e la relazione mediata dalla tecnologia tra individui e società. Questo approccio fornisce quindi una visione dell’industria che va oltre l’efficienza e la produttività come unici obiettivi e rafforza il ruolo e il contributo dell’industria alla società e al benessere dei lavoratori. Il 5.0 è quindi anzitutto una cornice culturale, è un processo socio-tecnico dove l’essere umano è al centro di ogni riflessione, di ogni processo di ricerca, design e sviluppo di beni e servizi. È la volontà di costruire una società incentrata sulla persona e su un’idea del lavoro e delle organizzazioni che bilancia il progresso economico con la risoluzione dei problemi sociali, mediante sistemi che integrano il cyberspazio con lo spazio fisico. La tecnologia torna quindi a essere uno strumento al servizio dei lavoratori e dei cittadini, che manterranno il controllo su quegli aspetti chiave che danno un senso alla nostra attività e alle nostre vite – i processi creativi, la capacità di inventare cose nuove, relazionarci tra noi e cooperare, prendere decisioni e essere quindi responsabili e consapevoli del nostro futuro.
Le imprese, le organizzazioni e i lavoratori stessi avranno nuovi obiettivi – più stimolanti e attuali – e dovranno perciò avere un ruolo attivo non solo nel produrre beni e servizi, ma anche nel fornire soluzioni alle sfide attuali, tra cui l’uso oculato delle risorse, il cambiamento climatico e la stabilità sociale ed economica dei paesi.