Intervista a Bianca Bagnarelli
Durante la realizzazione di ogni numero di LINC, da molti anni ormai, coinvolgo un illustratore o un’illustratrice con cui intraprendo un dialogo lungo tutto il percorso che porta alla pubblicazione della rivista. Ritengo che le copertine e le illustrazioni interne infatti siano importanti tanto quanto ogni altro tipo di contenuto che compone il magazine.
In particolare il lavoro svolto con Bianca Bagnarelli ci ha portati – a me e a tutta la redazione di LINC – ad avviare un discorso più ampio su come il tema del lavoro venga rappresentato in questi ultimi anni in cui la pandemia ha cambiato praticamente ogni paradigma.
Ma partiamo dal suo di lavoro, da come è nato e da come si è evoluto.
Qual è il percorso che ti ha portato fino a qui?
Ho frequentato per soli due anni l’Accademia di Belle Arti – Fumetto e Illustrazione a Bologna, decidendo poi di lasciare gli studi per dedicarmi alla casa editrice indipendente, Delebile, che con alcuni amici e compagni di corso avevo fondato. Attraverso l’esperienza di Delebile, curando diverse antologie tematiche di racconti a fumetti e seguendone anche la grafica, ho realizzato per la prima volta delle illustrazioni, per diverse copertine di riviste. Ho quindi capito come funzionava realmente la professione e ho capito che era quello che volevo fare.
Perché il nome Delebile?
È il frutto di innumerevoli riunioni di redazione, eravamo in tredici e questa era l’opzione che più ci convinceva. Con il senno di poi, però, rappresenta anche una riflessione sull’autoproduzione: quando ci si autoproduce, infatti, si è presenti solo finché si pubblicano contenuti. Non esiste memoria storica, è un universo che esiste solo all’interno dei festival, degli incontri, delle mostre a cui partecipi e organizzi per autopromozione. Da qui il nome Delebile, l’opposto di indelebile. La parola richiama poi la china, utilizzata nei fumetti, che è indelebile.
Esiste ancora questa casa editrice?
Non ha chiuso ufficialmente, però ha smesso di produrre nel 2017, con l’uscita del nostro ultimo libro. Abbiamo realizzato una decina di antologie collettive e altrettanti libri singoli, tutti incentrati sul racconto breve. Ho potuto viaggiare, partecipare a festival stranieri, in Francia, Svizzera, Germania, Inghilterra e negli Stati Uniti e ho conosciuto così il mercato estero. Ho realizzato alcuni fumetti (antologie e libri singoli) per Nobrow, casa editrice inglese distribuita anche negli USA: l’art director del NYT al tempo, Alexandra Zsigmond, notò in libreria il mio volume per Nobrow e mi chiese se fossi interessata a realizzare delle illustrazioni per il magazine. Dopo il mio lavoro per il Times, sono spuntate molte altre collaborazioni.
La tua è sicuramente una storia di ispirazione per chi si trova a percorrere oggi la tua stessa strada. È un esempio positivo, coraggioso.
Incosciente, direi.
E l’incoscienza serve, a volte. Molto spesso, infatti, ci rinchiudiamo in settori, schemi, impedendo alla nostra identità di manifestarsi.
È vero!
Ti chiedo un confronto tra gli anni prima e dopo la pandemia, considerando soprattutto il tuo lavoro.
Durante la pandemia i festival e le occasioni di incontro sono venuti a mancare e per un illustratore o un fumettista, professioni fatte di solitudine per la maggior parte del tempo, tale mancanza è stata importante, perché rappresentano appunto i soli momenti di scambio e socialità. C’è stata fame di questo tipo di connessioni.
La pandemia ha avuto degli effetti sulla tua creatività?
Direi positivi per la mole di lavoro. Il mio stile si addice alla rappresentazione della malattia, ho avuto quindi molte commissioni legate proprio al tema del COVID, della paura, della solitudine. A livello di routine professionale, i cambiamenti sono stati pochi per me, lavorando già da casa. Penso di essermi resa conto dopo dell’impatto che questo momento ha avuto, il lavoro ha riempito lo spazio vuoto e il tempo a disposizione.
Sono d’accordo, gli effetti di questo periodo si stanno manifestando adesso: rientrare in ufficio non per tutti è stato semplice, inoltre i lavoratori di oggi ricercano determinati valori e sempre più flessibilità. Abbiamo voluto raccontare tutto questo nell’ultimo numero monografico di LINC che hai illustrato. Come hai interpretato questo soggetto e come ti sei sentita mentre ci lavoravi?
La sensazione che ho avuto mentre lavoravo a queste tavole è stata quella di sospensione: si stanno ancora prendendo le misure rispetto a quanto accaduto, si attende e si osserva. Siamo in un limbo, si avverte il cambiamento – penso anche all’intelligenza artificiale e al suo impatto, quasi una nuova rivoluzione industriale. Ho voluto tradurre questo spazio, questo precipizio in immagini: una sorta di sala d’attesa collettiva in cui ci si interroga sul futuro.
Per la copertina del numero abbiamo scelto l’illustrazione che ritrae una donna che si erge al di sopra dei palazzi di una città, che ricorda New York, sempre più vuota come riportano numerosi articoli. Non vogliamo tornare alla vita di prima, ma vogliamo rimettere al centro i nostri bisogni e le nostre aspettative – da qui, Human Centric, il titolo del magazine. Ci siamo, quindi, elevati, anche al di sopra degli spazi, non accettando più quelli che c’erano prima. Qualcuno, invece, l’ha interpretata come una ragazza con la testa tra le nuvole, distratta. Cosa ne pensi?
Non sono, per me, punti di vista contrapposti: non vogliamo più stare dentro agli spazi e al tempo stesso non abbiamo più, forse, spazio mentale a sufficienza per occuparci di tutto, stando appunto “sulle nuvole”. Si parla molto, infatti, di quiet quitting, di lavoro al di sotto delle performance, di volontà di estraniarsi dalla propria routine. Sono temi che appartengono alla stessa area tematica. Vogliamo trovare delle soluzioni nuove, alternative rispetto alle precedenti.
Un’altra illustrazione ritrae una seconda donna, gigante, all’interno di una stanza, seduta di fronte al pc. Come la racconteresti?
Lei è come mi sento alla fine di una giornata di lavoro. Svolgo una professione che mi porta a concentrare tutta la mia attenzione su dettagli minuscoli per tantissime ore al giorno: quel dettaglio arriva a rappresentare tutto il mio universo e non mi rendo conto di quanta voglia io abbia di stare in contatto con il mondo, di prendervi parte come persona. Lo spazio ristretto dell’immagine contiene questo impulso.
Per questo numero abbiamo intervistato le giovani generazioni, ragazzi di 14, 16, 18 anni, chiedendo loro cosa si aspettano dalla loro futura vita lavorativa. Quale delle illustrazioni che hai realizzato per il numero rappresenta al meglio questa generazione?
Direi proprio quella della persona gigante all’interno della stanza, o quella con le mani sulla sfondo che compongono una scala – una scelta di speranza. Penso dipenda molto dall’accezione che uno ha di futuro.
L’ufficio è invece ritratto come un campo da minigolf: cosa rappresenta, per te, questa illustrazione?
Ho voluto giocare con l’idea di spaesamento: volevo scardinare la classica rappresentazione dell’ufficio, con i suoi cubicoli tutti uguali, dipinti di grigio, inserendo un elemento di rottura. Il campo da minigolf veicola l’idea di non prendersi troppo sul serio, soprattutto quando si lavora.
Lavorativamente parlando, viviamo un momento di generale brainstorming: si sperimentano nuovi modelli organizzativi, nuove tecniche, le innovazioni tecnologiche stanno rivoluzionando alcuni lavori. Sei d’accordo?
In ambito creativo si dibatte molto sulla possibilità che l’Intelligenza Artificiale sia in grado di riprodurre o meno la creatività umana. Le risposte che abbiamo, per ora, sono imprevedibili. Io stessa non riesco a immaginarmi come sarà il futuro, di qui ai prossimi quindici anni.
Pensi che il tuo lavoro possa cambiare nel breve termine sotto la spinta di queste tecnologie?
Per me nulla è cambiato. Uso sempre gli stessi strumenti, le stesse modalità, non ho avvertito nessun cambiamento. Nel settore si discute della possibilità di usare l’IA come un device per facilitare alcune fasi del lavoro creativo. È uno scenario che non mi attira, per la sua macchinosità: mi è sembrato più lungo insegnare alla macchina ciò che avrebbe dovuto fare che realizzarlo in prima persona. Probabilmente verrò smentita in pochissimo, nel giro di sei mesi.
Come sei arrivata a delineare il tuo stile, la tua mano?
Non ho una risposta diretta, penso sia successo in maniera del tutto naturale: le illustrazioni sono un’evoluzione delle storie a fumetti che facevo. Hanno infatti una dimensione molto narrativa, una componente di racconto molto forte. Sono sempre stata molto interessata al colore e alla luce, cercando di restituire al pubblico un’impressione visiva immediata. Guardando un mio lavoro, hai fin da subito chiara quale sia la tonalità emotiva dell’immagine, in che momento della giornata il racconto avvenga.
Hai lavorato con testate internazionali e grandi aziende, affrontando molto spesso il tema del lavoro. È cambiato il modo di illustrarlo?
C’è la tendenza a voler abbandonare la rappresentazione classica dell’ufficio, la descrizione corporate che tutti nei decenni abbiamo imparato a conoscere – la sedia da scrivania, il cubicolo, la pianta in un angolo. Negli ultimi anni, invece, ho rappresentato molto spesso riunioni telematiche, videochiamate e la grafica che le accompagna è diventata altrettanto iconica. Vi è poi un’attenzione maggiore al genere delle figure rappresentate, non più soli uomini, e all’inclusività. I cambiamenti sociali si sono riflessi nelle illustrazioni.
Progetti futuri?
Sto lavorando a dei racconti brevi a fumetti che dovrebbero uscire per un editore inglese quest’estate e poi tante illustrazioni, per diverse realtà.
La copertina di LINC viaggerà ancora, dopo Ivrea (ndr: la cover di LINC 2023 è stata una delle illustrazioni esposte al festival La grande invasione, in occasione di una mostra personale su Bianca Bagnarelli)?
Arriverà in Trentino, per un altro festival.
*Nell’immagine in evidenza una delle illustrazioni realizzate da Bianca Bagnarelli per il nuovo numero di LINC.
** Nell’immagine interna la cover del nuovo numero di LINC esposta al festival La Grande Invasione.