Ripensare il lavoro non significa solamente riformulare spazi, plasmare in maniera alternativa ruoli e gerarchie e adottare nuovi strumenti. Comporta anche rivedere in che modo tutti noi portiamo a termine compiti e attività. Ed essere multitasking, forse, non rappresenta la soluzione migliore, come suggerisce l’estratto di MA CHI ME LO FA FARE?, il nuovo volume di Andrea Colamedici e Maura Gancitano, edito da HarperCollins, pubblicato nell’ultimo numero cartaceo di LINC e qui riproposto.
«Sempre perché più sei impegnato, più sei interessante, siamo stati spinti a pensare che fare più cose contemporaneamente sia indice di valore: ascoltare musica mentre si guarda una serie tv e si manda un messaggio su WhatsApp, per esempio, potrebbe sembrarci un segno di vivacità intellettuale, intelligenza, senso pratico. A osservarlo da vicino, però, ci accorgiamo che si tratta soltanto di un modo con cui abbiamo finito con lo svolgere (male) più lavori contemporaneamente.
Del resto, ben pochi di noi praticano realmente il multitasking. Come ha spiegato la neuropsicologa Cynthia Kubu, quando pensiamo di essere multitasking il più delle volte non stiamo facendo davvero due cose contemporaneamente: stiamo in realtà compiendo azioni singole in rapida successione, cambiando velocemente attività e quindi saltando ogni volta da una all’altra sperperando quantità inverosimili di energia.
Uno studio ha rivelato che solo il 2,5% delle persone è in grado di svolgere efficacemente il multitasking. Per il resto di noi, si tratta solo di un’illusione.
Altri, invece, dimostrano che quando il nostro cervello si trova a dover saltare avanti e indietro da un compito complesso all’altro, ci rende meno efficienti e più propensi a commettere errori. Altri esperimenti ancora suggeriscono che le persone che fanno spesso multitasking multimediale (come ascoltare musica mentre controllano la posta elettronica o scorrere i social media mentre guardano un film) sono più distratte e meno in grado di concentrare la loro attenzione anche quando svolgono un unico compito. In sostanza, cerchiamo di aggregare più esperienze possibili, impauriti dall’idea di perderci qualcosa, ma proprio per questa fame disperata finiamo con il perdere quasi tutto, in particolare quel che riteniamo di aver fatto nostro, su cui non torneremo più perché lo avremo dato erroneamente per appreso. Inoltre, il multitasking richiede molta memoria di lavoro o memoria temporanea del cervello: occupare interamente questa memoria annulla la nostra capacità di pensare in modo creativo, come hanno mostrato le ricerche di Jennifer Wiley e Andrew F. Jarosz. Potremmo dire che, se fossimo dei computer, la nostra ram sarebbe quasi piena di applicazioni inutili aperte in background, e saremmo impossibilitati a lanciare i programmi essenziali. “Troppa concentrazione può effettivamente danneggiare le prestazioni nelle attività creative di risoluzione dei problemi” hanno scritto gli autori nel loro studio.
Pieni di pensieri, progetti e sogni altrui, i multitasker non riescono a sognare a occhi aperti e a lasciarsi colpire dalle intuizioni impreviste. Sono spesso terrorizzati all’idea di annoiarsi. Ma la creatività e l’estro hanno bisogno di spazi vuoti per manifestarsi e, per usare una bella immagine di Walter Benjamin, la noia è l’uccello incantato che cova l’uovo dell’esperienza. Non serve a nulla piantare ogni giorno nuovi semi se non si dà loro il tempo e il modo di fiorire. La noia è un ingrediente essenziale del processo creativo, è quel momento in cui il tempo può dilatarsi e si può fare esperienza del vuoto, senza cadere nell’intrattenimento superficiale. Serve a fare spazio all’attenzione contemplativa, che è molto diversa dallo stato di iperattenzione in cui viviamo oggi, che ci illude di essere attivi ma che ci svuota e ci tiene in una condizione di stanchezza cronica, sempre prossimi al burnout. Abbiamo sviluppato una tolleranza minima per la noia, che vediamo come qualcosa da combattere, come un freno, e invece è essenziale al nostro cervello e alla nostra parte profonda. Come scrive Byung-Chul Han, se il sonno è il culmine del riposo fisico, la noia profonda è il culmine del riposo spirituale. Insomma: quando non sai che fare, prova a non fare niente.
Al contrario, il fatto di essere anche altrove (sui social, per esempio) mentre si è al lavoro, non libera affatto dal lavoro, ma risucchia le poche energie residue. Educare l’attenzione è quindi fondamentale per molti processi cognitivi. A questo proposito, numerose ricerche scientifiche fanno riferimento ai concetti di memoria di lavoro (working memory) e capacità della memoria di lavoro (working memory capacity) allo scopo di studiare come il nostro cervello riesca a sostenere i numerosi processi cognitivi che lo tengono impegnato durante la giornata. La capacità della memoria di lavoro (WMC) riguarda in particolare la capacità di focalizzare l’attenzione su ciò che si sta facendo, risolvere problemi analitici e coltivare la creatività. Perché la WMC sia alta, è importante riuscire ad allenare l’attenzione; questo allenamento, però, oltre a cambiare a seconda della persona e delle sue caratteristiche, non richiede paradossalmente solo di fare qualcosa, ma ha assoluto bisogno di riposo. Senza riposo non c’è lucidità.»