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Quiet hiring: la tendenza 2023 per il mondo del lavoro

Scritto da Gianluca Cedolin | 09/08/23 9.02

Ogni periodo storico, ogni anno quasi, nuove tendenze attraversano il mondo del lavoro. Stimolate da evoluzioni negli scenari economici, politici e sociali, a loro volta creano cambiamenti negli impieghi, nelle relazioni e nella vita delle persone.

 Se negli anni della pandemia abbiamo parlato tantissimo di Great resignation e Quiet quitting, nel 2023 un altro trend “silenzioso” ha cominciato a prendersi il palcoscenico. Stiamo parlando del Quiet hiring, inserito dalla Gartner al primo posto tra i nuovi trend futuri nel mondo del lavoro all’inizio di quest’anno. Emily Rose McRae, Director of Research della multinazionale della consulenza, ha spiegato che si parla di quiet hiring «quando un’organizzazione acquisisce nuove competenze senza assumere effettivamente nuovi dipendenti a tempo pieno».

Le aziende, in sostanza, stanno cominciando a favorire la mobilità interna dei talenti, cambiando loro mansioni e potenziando al contempo le loro abilità e la loro esperienza, al fine di poter rispondere alle nuove esigenze produttive senza assumere nuove figure. Ai lavoratori vengono date quindi maggior responsabilità e nuovi compiti, che è un po’ il contrario del quiet quitting, il fenomeno nato post-pandemia per cui i dipendenti decidono di svolgere solo le attività previste dal contratto nelle ore stabilite, senza prendersi responsabilità extra o fare straordinari, spinti soprattutto dall’incapacità di manager e datori di lavoro di valorizzarli a livello umano, relazionale e lavorativo.

Messo giù così, il quiet hiring sembra avvantaggiare solo le imprese, che possono in un colpo solo migliorare il rendimento e contenere i costi riservati al personale. Una situazione win-win per i datori, insomma, ma spesso non per i dipendenti, non per forza interessati a cambiare ruolo, o a entrare in altri progetti aziendali e a lavorare più del previsto. Da questa nuova tendenza, però, va detto che possono nascere sviluppi positivi anche per i lavoratori.

Innanzitutto, maggiori responsabilità devono corrispondere a maggiori guadagni, quindi è lecito aspettarsi un aumento nella retribuzione. Inoltre, affrontare nuovi incarichi permetterà alle persone di espandere il proprio set di competenze, rendendole risorse più preziose sia internamente all’azienda sia, perché no, anche all’esterno (si parla in questo caso di upskilling). Cambiare mansione, poi, può portare nuovi stimoli, mantenere alto il coinvolgimento del dipendente e la sua capacità di apprendere nuove cose. Una prospettiva che sembra essere confermata, almeno a livello tendenziale, anche dai dati: secondo quanto raccolto dal report The New Human Age di ManpowerGroup, presentato a Davos lo scorso gennaio, il 28% dei lavoratori italiani attualmente impiegati sarebbe disponibile a cambiare ruolo tra un mese, se gli venissero fornite maggiori opportunità di carriera. Insomma, se il fenomeno quiet hiring si accompagna a una condivisione dei nuovi carichi di lavoro e a un giusto adeguamento del compenso, anche i lavoratori potranno beneficiarne (con l’obiettivo, perché no, di ottenere in un futuro prossimo una promozione).

Le aziende, dal canto loro, sono molto attratte dal quiet hiring non solo per ragioni economiche, ma anche perché trovare e formare una nuova risorsa è difficile, in un periodo in cui il mondo del lavoro è attraversato da fenomeni quali la diffusa mancanza di talenti e quello che in gergo viene definito skill mismatch, vale a dire il gap tra le competenze richieste dalle aziende e quelle in possesso dei nuovi candidati. Stando infatti alle stime ManpowerGroup, il 77% delle aziende a livello globale dichiara difficoltà nel reperire i profili di cui ha bisogno. Già quattro anni fa, nel report Deloitte Global Human Capital Trend del 2019, il 92% delle aziende del blocco europeo, africano e mediorientale (la cosiddetta area Emea) si diceva convinto che i metodi di assunzione tradizionali non fossero più efficaci per attrarre i migliori talenti.

Nell’ottica di manager e risorse umane è meglio quindi, perlomeno nel breve termine, sfruttare i talenti interni alle organizzazioni e tenerseli ben stretti. Anche perché capita che le imprese siano alla ricerca di qualcuno con nuove competenze solo temporaneamente, per un momento o una ragione specifica, e non avrebbe quindi senso cominciare un lungo e costoso processo di assunzione. In questo senso il rivolgersi momentaneamente a forze esterne o a collaboratori a progetto può rientrare sotto la definizione di quiet hiring, anche se la tendenza sembra essere quella di puntare, per quanto possibile, sulle risorse interne.

Solo il tempo dirà se questa nuova pratica porterà vantaggi sia alle aziende sia ai loro dipendenti, contribuendo a tenere sotto controllo i bilanci, la crescita e ad ampliare le competenze dei lavoratori, o se invece si tradurrà soltanto in un sovraccarico delle responsabilità e del carico di lavoro. Di sicuro per la buona riuscita sarà fondamentale un approccio etico, mirato al dialogo e alla condivisione degli obiettivi.

 

***Eng version

Every historical period, almost every year, new trends run through the world of work. Stimulated by evolutions in economic, political and social scenarios, they in turn create changes in people’s jobs, relationships and lives. If in the pandemic years we talked a great deal about Great resignation and Quiet quitting, in 2023 another ‘silent’ trend has begun to take the stage. We are talking about Quiet hiring, ranked by Gartner as one of the new future trends in the world of work earlier this year. Emily Rose McRae, Director of Research at the multinational of consultancy, explained that quiet hiring is «when an organisation acquires new skills without actually hiring new full-time employees».

Companies, in essence, are starting to foster the internal mobility of talent, changing their tasks while enhancing their skills and experience, in order to be able to respond to new production needs without hiring new people. Workers are thus given more responsibility and new tasks, which is somewhat the opposite of quiet quitting, the phenomenon born post-pandemic whereby employees decide to perform only the tasks stipulated in their contract during the set hours, without taking on extra responsibilities or working overtime, driven mainly by the inability of managers and employers to value them on a human, relational and work-related level.

Put the way it is, quiet hiring only seems to benefit companies, which can at once improve performance and contain personnel costs. A win-win situation for employers, in short, but often not for employees, who are not necessarily interested in changing roles, or joining other company projects and working longer than expected. From this new trend, however, it must be said that positive developments can also arise for workers.

First of all, more responsibilities must correspond to higher earnings, so an increase in remuneration is to be expected. Moreover, taking on new tasks will allow people to expand their skill set, making them more valuable resources both internally within the company and, why not, also externally (we speak in this case of upskilling). Changing tasks, then, can bring new stimuli, keep the employee’s involvement high and enhance their ability to learn new things. A prospect that also seems to be confirmed, at least at a trend level, by the data: according to the findings of ManpowerGroup’s report The New Human Age, presented in Davos last January, 28% of currently employed Italian workers would be willing to change roles in a month’s time if given more career opportunities. In short, if the quiet hiring phenomenon is accompanied by a sharing of the new workloads and a fair adjustment of remuneration, the workers will also benefit (with the aim, why not, of getting a promotion in the near future).

Companies, on their part, are very much attracted to quiet hiring not only for economic reasons, but also because finding and training a new resource is difficult, at a time when the world of work is affected by phenomena such as the widespread lack of talent and what is known in the jargon as skill mismatch, i.e. the gap between the skills required by companies and those possessed by new candidates. In fact, according to ManpowerGroup estimates, 77% of companies globally report difficulties in finding the types of resources they need. Already four years ago, in the Deloitte report Global Human Capital Trend of 2019, 92%, companies in the European, African and Middle Eastern bloc (the so-called Emea area) said they were convinced that traditional recruitment methods were no longer effective in attracting top talent.

From the perspective of managers and human resources, it is therefore better, at least in the short term, to make use of the talent within organisations and keep a tight hold onto it. Also because it happens that companies are only looking for someone with new skills temporarily, for a specific time or reason, and it would therefore not make sense to start a lengthy and costly recruitment process. In this sense, temporarily turning to external forces or project collaborators may fall under the definition of quiet hiring, although the trend seems to be to focus on internal resources as far as possible.

Only time will tell whether this new practice will benefit both companies and their employees, helping to keep budgets under control, favour growth and broaden workers’ skills, or whether it will only result in an overload of responsibilities and workload. Certainly, an ethical approach, aimed at dialogue and shared goals, will be crucial for success.