Tempo e lavoro non sono mai stati così vicini. Due facce della stessa medaglia: una in funzione dell’altra nella peggiore delle ipotesi, nella migliore, l’una in sinergia con l’altra. Per le organizzazioni che si basano su flessibilità e fiducia, la strada sembra spianata. Il caso di OneDay, business & community builder con focus sulle nuove generazioni, composto dalle company ScuolaZoo, ZooCom, Together, WeRoad, Mambo, belive, Artena e Glint, è d’esempio.
Non esistono regole: il tempo non è in una scatola. Un principio che vale tanto per la giornata lavorativa quanto per le ferie. Ma cosa significa, in concreto, adottare il modello delle ferie libere? A rispondere è Betty Pagnin, People & Culture Director di OneDay. Esperta di cultura organizzativa, risorse umane e gestione di crisi turistica, da quando è diventata socia del Gruppo nel 2009, ha portato l’approccio take away in azienda, ovvero: imparare e portarsi a casa qualcosa da ogni situazione. Mettere le persone al centro è il suo obiettivo, come dimostrano il Culture Manifesto, il documento in cui ha messo nero su bianco i valori e la cultura di OneDay, e le numerose innovazioni portate nella politica organizzativa del Gruppo.
Pagnin, come mai avete scelto di rendere libere le ferie?
«Prima delle ferie, abbiamo liberato il tempo. Il nostro Gruppo ha scelto di adottare la più ampia flessibilità oraria: abbiamo abbandonato il concetto delle otto ore al giorno, il classico schema 9-18, in favore di una modalità che meglio si adatta alle necessità dei singoli. C’è chi sceglie di lavorare per un’ora, interrompere per due e poi riprendere le attività oppure c’è chi decide in un giorno di lavorare per otto o nove ore, per poi assentarsi in altri momenti. Questo significa per noi non mettere il tempo in una scatola».
Avete normato questa possibilità con accordi di secondo livello?
«Abbiamo lavorato sui contratti e abbiamo fatto un percorso step by step: già nel 2017 abbiamo tolto il cartellino che ci sembrava obsoleto per il nostro tipo di lavoro. Abbiamo reso lo smart working flessibile e abbiamo deciso di eliminare tutte quelle disfunzionalità che sono connesse alle dinamiche del controllo. Il controllo ha un costo ed è motivo di stress, sia per l’azienda che per le persone».
Come si declina la massima libertà con la necessità di raggiungere gli obiettivi aziendali?
«Il training sui manager è fondamentale: abbiamo obiettivi chiari e condivisi, tutti sanno dove dobbiamo andare e quali sono i goal da raggiungere. Ogni persona si relaziona con il proprio manager, non per “dovere”, ma perché si sente parte del team. Non succede mai, ad esempio, che qualcuno si assenti senza avvertire: è una questione di buon senso e di valori. Il primo valore di OneDay è l’imprenditorialità. Scegliamo persone responsabili e intraprendenti che sappiano dare valore al concetto di fiducia. Per questo, la policy delle ferie libere, così come quella della flessibilità, vale per tutti: profili junior e senior».
Un numero di ferie potenzialmente illimitato può significare, al contempo, fare orari più lunghi nelle giornate di lavoro. In questo modello, gli straordinari sono ammessi o no?
«Anche in questo caso, gli straordinari sono legati a un concetto di tempo standard. Se adottiamo un principio di fluidità e libertà, deve valere su ogni aspetto. Quindi no, non prevediamo straordinari. Ma il focus, vorrei sottolineare, non è minimizzare il costo del personale, il vero tema è focalizzarsi sull’avere dei manager che possono creare relazioni di fiducia con le proprie persone».
Cosa significa, in concreto?
«Ai manager chiediamo di “far girare il team”, di essere accanto alle persone, di spingerle alla crescita e al miglioramento. Se una persona siede davanti a un computer per otto ore al giorno per cinque giorni alla settimana perché questa è la regola, ma poi davanti a quel computer non sa cosa fare, non ha senso. Abbiamo perso tutti: la singola persona e l’azienda. Entrambi diventano improduttivi e frustrati».
Quanto c’è del modello Netflix in OneDay e in cosa differite dagli innovatori americani?
«Senza dubbio, l’idea delle ferie libere e in generale del tempo flessibile è nata leggendo il libro di Reed Hastings, fondatore di Netflix, No Rules Rules. Mi sono accorta di condividere appieno la sua visione del mondo del lavoro, quindi l’intenzione è identica. Quello che cambia è il contesto: il nostro è un Paese molto burocratizzato, in cui i contratti frenano la sperimentazione aziendale. Tutelano lavoratrici e lavoratori, è vero, ma al contempo ingessano. Posso fare un esempio?».
Prego.
«Se faccio più ferie di quante ne ho maturate, il mio TFR viene intaccato. Di conseguenza, sono portata a non assentarmi, anche se in ufficio non ho nulla da fare. Ecco: io credo, invece, che sia molto più efficace lavorare con massima flessibilità e ROL zero. In questo modello, il people manager pianifica le ferie con le persone: tutti devono godere almeno di 26 giorni di ferie all’anno. Oltre a queste, c’è la possibilità di aggiungere altre giornate. Se le ferie godute eccedono quelle maturate, nessuno viene penalizzato e il TFR non viene toccato. Un altro esempio riguarda i buoni pasto: abbiamo deciso di corrisponderli senza legarli ai giorni lavorati».
Non c’è il rischio che ne eroghiate più del dovuto?
«È vero. Ma anche questo significa non avere il controllo».
Come è andata, sul campo, la sperimentazione delle ferie libere?
«Abbiamo introdotto questo modello da quasi due anni e da un primo bilancio posso dire che siamo andati molto bene nella programmazione, nei fatti c’è stato chi ha fatto più ferie e chi meno. Non le abbiamo tracciate perché la massima flessibilità significa non tracciare, ma abbiamo fatto una survey interna che ha dimostrato una sostanziale soddisfazione da parte di tutti».
Ci sarà pure qualche ombra…
«Diciamo così: è un modello molto attrattivo in fase di assunzione che attira soprattutto i giovani, ma non è questo il punto da cui partire. Se un’azienda vuole adottare una flessibilità così spinta, deve prima aver fatto altre scelte. Deve aver imparato a lavorare per obiettivi, deve aver dedicato del tempo alla formazione sul people management, deve aver dimostrato coerenza con i propri valori fondanti. Inoltre, non è un modello applicabile a tutte le professioni. Ce ne sono alcune che oggettivamente non possono prevedere un’estrema flessibilità. In questo caso, è giusto ammetterlo. E lavorare per innovare in altre direzioni».