Cosa c’è dietro la sorprendente crescita dei posti di lavoro nel 2022 e 2023?

Oggi è la Festa dei Lavoratori e sul nostro magazine LINC la celebriamo con un'analisi dell'economista Pietro Garibaldi. Focus sull'andamento economico negli ultimi due anni e sull'evoluzione delle retribuzioni in relazione al tasso di inflazione. La teoria economica insegna, infatti, che per una rapida uscita dall’inflazione si paga un prezzo in termini di disoccupazione. Non è stato così in Italia nel 2023. L’occupazione è cresciuta non di poco, creando posti di lavoro di qualità. Ma attenzione. Dietro al “miracolo”, c’è la questione dei salari bassi. E molto di più.

I temi esplorati in quest’articolo – il futuro del lavoro in Italia, le direttrici di sviluppo da tenere in considerazione per imprese e organizzazioni, il quadro economico e finanziario internazionale – sono al centro di The Exchange, l’Annual Conference che ManpowerGroup Italia ha previsto per il prossimo 30 maggio. Una giornata di interventi, incontri, laboratori e workshop con ospiti d'eccezione e i protagonisti del mondo del lavoro nazionale, per provare a disegnare insieme il lavoro dei prossimi anni, alla luce delle trasformazioni tecnologiche e di sostenibilità.

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Quando nel 2011 un giornalista chiese a Tom Sargent – gigante della macroeconomia contemporanea, fresco allora di premio Nobel – di commentare l’andamento dell’economia nordamericana, la risposta dello scienziato fu semplicemente «noi non ci occupiamo di queste cose». Al di là dello snobismo lapidario dello studioso, è vero che i macroeconomisti del lavoro hanno poche certezze sul comportamento effettivo di un sistema economico in un dato momento, anche perché quasi sempre rischiano di essere smentiti dai fatti, specialmente se l’orizzonte temporale a cui si riferiscono è breve.

L’andamento del mercato del lavoro italiano degli ultimi due anni e la sorprendente crescita dei posti di lavoro nel 2022 e 2023 gettano dubbi su un’ulteriore piccola certezza dei macroeconomisti, quella legata alla perdita di posti di lavoro durante episodi di “disinflazione”, quando cioè l’inflazione si riduce e ritorna a livelli accettabili, che significa un aumento dei prezzi annui intorno al 2% (figura 1 e figura 2).

 

Figura 1 – L’andamento dell’inflazione in Italia nel periodo 2015-2024

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Figura 2 – L’andamento del numero degli occupati in Italia dal 2012 al 2024

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Il “tasso di sacrificio” per uscire dall’inflazione

Fino a qualche anno fa, una delle poche certezze degli economisti riguardava proprio i costi, in termini di posti di lavoro, di un periodo di stretta monetaria – quando cioè le banche centrali aumentano i tassi – e conseguente riduzione dell’inflazione. La stretta monetaria necessaria, si sostiene nei manuali di macroeconomia, è sempre accompagnata da un aumento della disoccupazione e da una riduzione dell’occupazione.

L’inflazione è effettivamente la più odiosa delle tasse, poiché colpisce i cittadini e l’economia in modo occulto e a molti di loro non concede alcuna possibilità di difendersi, come tristemente hanno realizzato i lavoratori dipendenti italiani facendo la spesa al supermercato nel 2022 e nel 2023. La storia economica del dopoguerra effettivamente sembra confermare quanto si scrive nei libri di testo sulla disinflazione. Storicamente, la diminuzione dell’inflazione dovuta a un aumento dei tassi è associata a un periodo di rallentamento dell’attività economica. In altre parole, la riduzione della corsa dei prezzi si accompagna a un periodo in cui il prodotto interno lordo e l’occupazione risultano più bassi.

Il meccanismo è legato agli effetti dell’aumento dei tassi di interesse sul comportamento di imprese e famiglie. Di fronte a tassi in salita, le imprese riducono sia gli investimenti sia la domanda di lavoro. Le famiglie – gravate dal caro mutui – riducono la spesa nei carrelli e la richiesta di abitazioni. Tra gli economisti, il rapporto tra la riduzione dell’inflazione e la contrazione del prodotto interno lordo è chiamato “tasso di sacrificio”.

Verso la fine del secolo scorso Laurence Ball – un macroeconomista della John Hopkins University – ha studiato più di 60 episodi di disinflazione avvenuti nei paesi Ocse e ha stimato un valore medio del rapporto di sacrificio pari a circa 1,5. Tradotto, significa che far scendere l’inflazione dal 10 al 5% richiede una riduzione di Pil di 7,5 punti percentuali. Per gli episodi di disinflazione avvenuti in Italia il rapporto si avvicina spesso a 2. Quando si calcola il tasso di sacrificio in termini di aumento della disoccupazione, il rapporto è sostanzialmente simile.

I più anziani tra i lettori ricorderanno i tre più importanti episodi di disinflazione in Italia: due sono avvenuti nel 1976-1979 e nel 1981-1987, a seguito delle crisi petrolifere, poi c’è stata la disinflazione del 1995-1998 che ci ha miracolosamente permesso di rientrare nell’euro. Oggi, l’uscita dall’inflazione è avvenuta grazie alla riduzione delle tensioni sul mercato energetico, ma soprattutto grazie al comportamento della Banca centrale europea che, seppur partendo leggermente in ritardo, da luglio 2022 a settembre 2023 ha messo in atto la più drastica stretta monetaria della storia dell’euro, determinando un aumento dei tassi di rifinanziamento da un livello inferiore allo zero a uno attuale intorno al 4%. Aver agito in maniera decisa e veloce è stata probabilmente la scelta corretta, in quanto la storia economica ci insegna che il tasso di sacrificio è più elevato quanto più lunga è la durata del periodo di uscita dall’inflazione.

 

La politica fiscale del governo

Non c’è però solo la politica monetaria, esiste anche la politica fiscale nazionale. Durante la disinflazione il governo di Giorgia Meloni ha fatto poco e nulla, ma almeno non ha combinato guai.

Le leggi di bilancio del 2023 e 2024 – al di là delle consuete maratone parlamentari con regali a pioggia – hanno sostanzialmente mantenuto un’impostazione macroeconomica coerente con la politica europea e la linea economica del governo Draghi. I pensionati sono stati in parte compensati per l’inflazione con l’indicizzazione parziale dei loro assegni, mentre i lavoratori autonomi hanno potuto beneficiare nel 2023 dell’aumento fino a 85 mila euro di fatturato delle “flat tax”. I lavoratori dipendenti hanno avuto una conferma della riduzione del cuneo fiscale per i redditi fino a 35 mila euro, che tuttavia non ha certamente permesso di contrastare l’aumento del caro vita.

Ad ogni modo, l’andamento dell’inflazione negli ultimi due anni è abbastanza eclatante, come si evince dalla figura 1. L’indice generale dei prezzi è salito dall’1% circa di inizio 2021 fino a un quasi drammatico 12% di febbraio 2023. Da quel picco, la rincorsa si è poi ridotta in modo continuativo, fino ad arrivare a un livello attuale intorno al 2%.

 

Il “miracolo italiano”

Nel 2023 l’uscita dall’inflazione è stata effettivamente rapida e brutale: tutti ci saremmo aspettati un periodo di sacrificio nel mercato del lavoro. Ma alla prova dei fatti l’economia italiana ha sorpreso sia gli osservatori sia gli studiosi. Più che la tenuta della (bassa) crescita nel 2023, negli ultimi mesi le notizie più sorprendenti hanno riguardato il mercato del lavoro. L’anno scorso l’economia italiana ha creato quasi mezzo milione di posti di lavoro. È un numero davvero impressionante, poiché corrisponde a una crescita annua degli occupati superiore al 2%. Da quando la Banca centrale europea ha iniziato ad alzare i tassi, sono stati creati 530 mila posti di lavoro e l’occupazione è cresciuta del 2,3%.

 

Figura 3 – L’evoluzione del tasso di disoccupazione in Italia dal 2012 al 2024

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Quando a metà degli anni Novanta Silvio Berlusconi entrò in politica, convinse gli elettori a votarlo promettendo un milione di posti di lavoro in una sola legislatura, cioè in cinque anni. Il fatto che oggi, in un anno e mezzo e durante una drastica disinflazione, siano stati creati più di mezzo milione di posti potrebbe portare a parlare di un apparente miracolo nel mercato del lavoro italiano. La facile obiezione è che si tratti sostanzialmente di posti precari. Anche qui, però, l’economia italiana ci ha sorpreso. I dati Istat ci fanno notare che il fenomeno più inatteso riguarda l’esplosione di posti di lavoro dipendente a tempo indeterminato, quello che le parti sociali e i politici chiamano “lavoro di qualità”. Mentre la crescita del lavoro autonomo è rimasta praticamente piatta, nel 2023 sono stati creati più di 400 mila posti di lavoro stabili per donne e uomini. Il lavoro dipendente a termine è invece addirittura diminuito.

 

Quanto conta la questione salariale

Come si può spiegare il boom del lavoro a tempo indeterminato? Non con la politica fiscale del governo, che non ha avuto un ruolo particolare, e nemmeno con le politiche del lavoro e la legislazione in materia, che sono rimaste pressoché invariate, fatto salvo per la conferma della riduzione del cuneo fiscale già introdotta dal governo Draghi nel 2022. La spiegazione più plausibile dell’apparente miracolo italiano del lavoro è verosimilmente legata all’altra faccia del mercato, ossia la bassa o inesistente crescita dei salari italiani. Cerchiamo di spiegarci. Nel 2022 e nel 2023 l’indice armonizzato dei prezzi al consumo – quello più utilizzato per i contratti di lavoro – è aumentato in Italia rispettivamente dell’8,7% e del 5,9%. Negli stessi due anni, la crescita delle retribuzioni è stata di circa il 3% per ogni anno. Mentre i prezzi aumentavano in un biennio di quasi il 15%, nello stesso periodo i salari nominali crescevano solo del 6%. Questo significa che i salari reali sono diminuiti di quasi il 9%. In altre parole, per le imprese il costo del lavoro in termini reali in Italia è diminuito di quasi il 10%. Come si insegna in qualunque corso di base di economia del lavoro, quando il salario reale diminuisce la domanda di lavoro da parte delle imprese aumenta. Utile anche guardare a cosa è successo con gli investimenti. Gli aumenti dei tassi di interesse dovuti alla manovra della Banca centrale europea dovrebbero aver in parte ridotto gli incentivi per le imprese a investire in nuovi macchinari. In realtà, dopo un biennio di imponenti investimenti in edilizia legati a superbonus e bassi tassi di interesse, l’Istat ha da poco certificato che anche gli investimenti in macchinari nel 2023 sono cresciuti di un robusto 3%. È quindi probabile che parte della ripresa della crescita congiunta di lavoro e capitale sia ancora legata a una fase di rimbalzo post-Covid.

Nei dati pubblicati dall’Istat ogni mese, si iniziano anche a vedere gli effetti dell’inverno demografico: nella fascia di età tra i 30 e 45 anni, i posti di lavoro stanno diminuendo. Per capirne l’andamento occorre ricordare che il numero assoluto di persone in questa fascia di età sta diminuendo nella popolazione, mentre i relativi posti di lavoro scivolano via via nella fascia sopra i cinquant’anni. L’effetto invecchiamento si evince dal fatto che il tasso di occupazione tra i 30 e i 49 anni è in realtà aumentato: quando infatti la popolazione di riferimento diminuisce, il lavoro cresce in termini relativi.

È dunque bene rallegrarsi per l’esplosione del lavoro a tempo indeterminato e per il quasi mezzo milione di posti di lavoro creati in un anno. Al tempo stesso, è bene ricordare e sottolineare che chi sta davvero pagando la grande inflazione degli ultimi due anni sono le retribuzioni reali dei lavoratori.

 

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Pietro Garibaldi è Professore di economia all’Università di Torino. È anche Direttore del “Programma Allievi” e Fellow del Collegio Carlo Alberto di Torino. Collabora con “Eco”*, il nuovo mensile di economia diretto da Tito Boeri, edito dal gruppo fondato da Enrico Mentana, composto già dalla rivista di geopolitica “Domino” e dal giornale online “Open”.

*Eco vuole essere uno strumento divulgativo di lettura del mondo contemporaneo e dell’attualità economica, finanziaria e politica che impatta sulla vita quotidiana di ognuno, con un focus sulla realtà italiana. Con analisi approfondite e allo stesso tempo accessibili a tutti. Rivolto a un pubblico ampio, da chi già legge la stampa di settore a chi si affaccia per la prima volta al dibattito economico, fino a chi semplicemente sente di aver bisogno di più strumenti per le proprie scelte quotidiane.

 

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