Ehi, come stai? Verso The Exchange, il summit che scrive il futuro del lavoro

Mercoledì 4 giugno al Superstudio di via Tortona a Milano si terrà la seconda edizione incentrata sulla “we economy”. Perché mai come oggi le sfide per le organizzazioni sono legate ai bisogni delle proprie persone e delle comunità. E partono da una domanda preziosa e trascurata: ehi, come stai?

Giampaolo Colletti*

 

Quando esci per la pausa pranzo indossi o rimuovi il badge della tua azienda? Una domanda secca, persino banale. Una domanda che però non lascia scampo, anche se la risposta può essere derubricata con un banale “non ricordo” o “dipende dalle situazioni”. In realtà proprio questa domanda – e la sua relativa risposta – racconta molto di chi siamo soprattutto fuori dall’ambiente professionale, pur mantenendo o meno quel legame con l’organizzazione per la quale lavoriamo. E allora, quando esci per la pausa pranzo indossi o rimuovi il badge della tua azienda? Se lo nascondi è un segnale indicativo di disapprovazione delle azioni dell’organizzazione per la quale lavori. A metterlo nero su bianco qualche tempo fa sono stati i ricercatori dell’istituti statunitense per le ricerche statistiche Gallup in una ricerca ripresa anche da Time e che ha esaminato soprattutto le nuove generazioni al lavoro, quell’inafferrabile Z che sta riscrivendo relazioni, processi, dinamiche di lavoro ben oltre il lavoro.

Aziende che diventano plurali

Ma quella domanda e la successiva risposta diventano rivelatrici di almeno altri due elementi: oggi la partita del lavoro, spesso in passato confinata nelle mura chiuse e impenetrabili delle fabbriche o degli headquarter brulicanti di colletti bianchi, esce prepotentemente allo scoperto. Siamo in un contesto di “vasi comunicanti” dove ciò che è dentro esce fuori e viceversa. Con tutti gli annessi e connessi. Potenziali opportunità e rischi incalcolabili che possono covare sotto il focolaio di crisi reputazionali difficilmente arginabili nel tempo segnato dai social media così pervasivi. Ma c’è dell’altro. Ed è rivelatore di come oggi quel capitale reputazionale dell’azienda sia strettamente correlato a tutti i componenti dell’azienda, ai suoi fornitori, ai clienti consolidati e persino ai prospect che ci osservano armati di smartphone. Di più, si estende alla comunità nella quale l’azienda si colloca geograficamente e alla quale si rivolge come prodotti, servizi, soluzioni erogate. È una partita doppia continua e senza esclusione di colpi che tira in ballo il capitale economico, e quindi il relativo posizionamento come mercato e quindi il posto nel mondo. Ma c’è dell’altro. A contare oggi c’è un’altra domanda che spesso non viene fatta per mancanza di consapevolezza o di tempo o di cultura. Eppure è una domanda preziosa anche se trascurata: ehi, come stai? Attenzione, però. Qui non si richiama alle classiche e già note indagini di clima. Bene che ci siano. Qui si parla di ascolto costante, autentico, misurabile. Si richiama a quell’idea di benessere psico-fisico che è individuale e al tempo stesso collettivo. Dare senso alle cose, partendo dalle persone. Dentro e fuori l’organizzazione. Così, per esempio, l’employer branding diventa leva attrattiva per dipendenti e clienti, arrivando a declinare un fattore abilitante di successo.

Dal dove stai al come stai

«Benvenuti nel nuovo posto di lavoro, dove avere un impatto positivo e abbracciare uno scopo sono elementi determinanti per attrarre i lavoratori più giovani, che chiedono ai datori di lavoro di dimostrare uno scopo oltre il profitto», ha scritto Bruce Horovitz su Time, in un dossier che richiama alla responsabilità degli ultimi arrivati in azienda, proprio quella generazione Z che chiama in causa tutti noi. Così l’attrazione di talenti passa da quanto si è attenti alle persone e di riflesso al pianeta. “I giovani cercano lavori con uno scopo più elevato”, ha titolato sempre Time. Molte persone non vogliono più limitarsi a lavorare, ma vogliono fare del bene. E farlo lontano dai luoghi iconici del lavoro. Lo evidenzia McKinsey: il 70% degli americani afferma di definire il proprio scopo attraverso ciò che fa, definendo anche dove lo fa. C’è un’altra domanda rivelatrice per fare luce su questo aspetto: la tua organizzazione ha un impatto positivo sulle persone e sul pianeta? Ebbene, solo il 43% degli intervistati ha risposto sì. I dipendenti che sono d'accordo hanno il doppio delle probabilità di essere coinvolti nel proprio lavoro e sono 5,5 volte più propensi a fidarsi della leadership della propria azienda. Ecco allora che si torna a quella cartina di tornasole: indossi o rimuovi il badge della tua azienda quando esci per la pausa pranzo? People first, si potrebbe dire. Perché la partita della rilevanza per l’impresa del futuro si gioca tutta sulla cultura aziendale che incontra la comunità e che abbraccia le sfide sociali e ambientali. Lo ha ricordato anche Molly DeWolf Swenson, Chief in Editor per AdWeek. «Le organizzazioni non possono aspettarsi di fare come la Svizzera mentre il resto del mondo sceglie da che parte stare. La cultura dei consumi è diventata il veicolo per l'espressione politica e la seria responsabilità sociale si è trasformata nel più vigoroso purpose che ha generato un attivismo appassionato. Così la giustizia sociale diventa di tendenza».

Persone e comunità

E allora, ha ancora senso parlare di lavoro in ore o è meglio passare dagli obiettivi agli scopi? In che modo riscoprire la dimensione professionale come passione o ancora come missione? E come vanno ripensati i processi, le relazioni, l’apertura alle comunità territoriali? In che modo le organizzazioni vanno incontro alle nuove generazioni e come le nuove generazioni vanno incontro alle organizzazioni? Di tutto questo ne parleremo durante la seconda edizione di The Exchange, summit di co-creazione in logica multistakeholder engagement che riflette sul futuro del lavoro (qui per registrarsi). Un momento di confronto con manager, professionisti, accademici, docenti, sistema politico, formativo. Insieme per ragionare sul senso del lavoro e in fondo di tutti noi, insieme. Per provare a immaginare il lavoro domani, partendo dall’oggi. Persone e comunità. In fondo il futuro del lavoro è fatto di questi elementi strettamente connessi tra loro. Parole che racchiudono un impegno civile, sociale, ambientale, comunitario nell’essere azienda. Perché mai come oggi le organizzazioni sono chiamate a uscire dalla propria area di confort per confrontarsi con ciò che le sta fuori e le sta attorno. Ecco allora che dietro la parola comunità c’è la forza delle relazioni e il ruolo di quell’attivismo consapevole che pone l’organizzazione sulla frontiera del cambiamento sociale. Un passaggio epocale dalla “Me economy” alla “We economy” con alleanze impensabili e un nuovo impegno fattuale, sostanziale, visionario. Potrebbe sembrare paradossale ripartire dagli individui – e soprattutto dai giovani – e dai luoghi nei quali lavorano e abitano nel tempo segnato dalla crescita esponenziale del capitale tecnologico. Ma oggi per disegnarlo al meglio questo futuro del lavoro servono competenze evolute, visione strategica, condivisione sistemica, innovazione diffusa, tanta consapevolezza e inevitabile coraggio. Ma soprattutto serve mettersi in ascolto. Delle persone, dei clienti, del mercato. Ecco allora il ruolo estroverso dell’organizzazione, ossia orientato a ciò che accade fuori in una dimensione plurale dell’azienda. Decodificare la complessità, a comprendere la realtà, a semplificare e non a banalizzare il contesto. Mai come oggi le organizzazioni d'eccellenza devono considerare ciò che c'è fuori dalle loro mura, uscire dalla mera autoreferenzialità delle torri d'avorio per provare a decodificare la complessità e a dare un senso alle cose. Dopo aver stilato il primo Manifesto in 5 azioni e 15 challenge per comprendere gli impatti dell’intelligenza artificiale nel mondo del lavoro, abbiamo deciso di ripartire dalla cosa più preziosa: le persone, connesse alle comunità. Insieme stileremo un altro Manifesto, stavolta sull’azienda del futuro. Per ragionare insieme sul senso del lavoro e in fondo di tutti noi. Per provare a immaginare il domani, partendo dall’oggi. Così scriveva Miyamoto Musashi, uno dei samurai più leggendari, abile spadaccino ed eccelso artista, autore del testo sui cinque anelli incentrato sugli elementi costitutivi dell’universo: "Pensate leggermente di voi e profondamente del mondo". Ecco, vale per gli individui e vale per le organizzazioni. Ci vediamo a Milano.

 

Giampaolo-Colletti

 

*Giampaolo Colletti è un giornalista professionista. Scrive di marketing e innovazione sulle pagine del Sole24Ore. È direttore del magazine Startupitalia. È autore e inviato per la trasmissione televisiva XXI Secolo in onda su Raiuno e nella sua versione digitale su Raiplay. Collabora all’evento The Exchange per Manpower.

 

 

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