Comprendere il meccanismo di funzionamento dell’intelligenza artificiale ne consente l’applicabilità e la governabilità, a patto che gli sforzi siano collettivi e distribuiti, dalla formazione accademica ai contesti di business. Individuare nuove categorie di riferimento per questa tecnologia consentirebbe di apprezzarne al meglio le potenzialità, mitigandone al tempo stesso i rischi. Ne discutono Maximo Ibarra e Andrea Prencipe.
M.I. Scoprire l’invisibile. È questa l’espressione che preferisco utilizzare quando parlo di intelligenza artificiale, una tecnologia che esiste – lo voglio sottolineare – da quasi settant’anni. L’intelligenza artificiale è un codice – algoritmo è il termine esatto – in grado di individuare connessioni tra dati. Un’azienda che si occupa di innumerevoli clienti ha ogni giorno a che fare con database di dimensioni importanti, che raccolgono informazioni sotto forma di testi, immagini, numeri, video. Questi dati sono grezzi e pertanto pressoché inutilizzabili. L’intervento dell’intelligenza artificiale ne permette la lavorabilità, attraverso le connessioni che stabilisce e l’estrazione di significati rilevanti.
L’IA è, per esempio, capace di stabilire che al verificarsi di specifici eventi i comportamenti di consumo di alcuni dei clienti dell’azienda cambiano, e cambiano in determinate direzioni. Questo è il cosiddetto machine learning. Lo strumento tecnologico impara e lo fa attraverso un’analisi neuronale, simulando le attività che i neuroni svolgono all’interno del cervello umano. La più recente evoluzione nel campo è l’IA generativa, attraverso la quale creiamo piattaforme che rielabo- rano il massiccio numero di dati e informazioni di cui sono alimentate (in modo autonomo, talvolta, se non sono strettamente regolate) per generare contenuti di varia natura. In questo momento le macchine stanno quindi cominciando a creare al posto dell’essere umano, dopo circa 300.000 anni dalla sua comparsa. È interessante osservare quali siano dal punto di vista di organizzazioni, aziende e istituzioni le applicazioni di questa tecnologia. L’IA può aumentare la produttività e l’efficienza dei business, automatizzando alcuni dei compiti più ripetitivi e dispendiosi del ciclo produttivo; è in grado di migliorare la relazione con i clienti, intervenendo nelle diverse fasi di customer care; si inserisce nei processi di ricerca e sviluppo, accelerando l’ideazione di nuove soluzioni o servizi. Dal mio punto di vista, però, l’impulso più significativo è quello legato all’individuazione di strategie innovative a beneficio dell’intera comunità. L’IA può, per esempio, analizzare i dati geologici e atmosferici di un determinato territorio ed evidenziare le aree soggette a un maggiore rischio idrogeologico, consentendo così alle istituzioni di intervenire in maniera preventiva, mirata ed efficace.
Secondo le più recenti stime, circa il 45 per cento delle ore lavorate in futuro sarà legato all’utilizzo dell’intelligenza artificiale, e da qui ai prossimi cinque anni oltre il 60 per cento dei lavori che andremo a svolgere oggi ancora non esiste: il ritmo di crescita di questa e altre tecnologie dirompenti impone, quindi, una riflessione sulla formazione, sull’upskilling, il reskilling e il long life learning del personale. Gli attori coinvolti nella cosiddetta ingegneria sociale – dalle istituzioni ai grandi protagonisti economici – non possono perciò farsi trovare impreparati, soprattutto guardando al contesto europeo, in cui il calo demografico e l’invecchiamento della popolazione incidono particolarmente.
A.P. La letteratura sull’innovazione è sempre stata in grado di fornirci delle categorie attraverso cui analizzare le nuove tecnologie che di volta in volta facevano la loro comparsa, dall’elettricità alla macchina a vapore, arrivando fino a Internet. Il loro meccanismo di funzionamento era piuttosto semplice, oserei dire lineare: dalla fase di sperimentazione si passava al momento definito di dominant design, in cui un’in- frastruttura unica, un prodotto definito andava a imporsi nel mercato e nella società. Applicare questo metodo all’intelligenza artificiale sembra impossibile e si rischierebbe di limitarne la portata. Per la loro capacità generativa, le macchine intelligenti differiscono dalle tecnologie a cui siamo stati abituati finora, portandomi a definire le attuali circostanze come rivoluzionarie. Ci troviamo di fronte, metaforicamente parlando, a dei “pappagalli stocastici”: l’IA, infatti, ripete quello che noi già sappiamo in maniera stocastica, ovvero facendo affidamento su previsioni statistiche e massimizzando la possibilità che a un certo input ne faccia seguito proprio un altro.
Dal punto di vista accademico credo sia giunto il momento di abbandonare l’antitesi tra cultura tradizionale – analogica, per così dire – e cultura digitale, convincendoci che siamo nell’era, come sostiene Ivano Dionigi (ndr: ex Rettore dell’Università di Bologna), dell’et-et. L’IA può essere un valido strumento di accompagnamento per gli studenti e i professori, per rivedere e rivisitare i metodi di apprendimento e valutazione – una sorta di co-pilota, che ci accompagna lungo il percorso e ci può fornire soluzioni alternative. È necessario, però, investire in alfabetizzazione per questa tecnologia, lungo tutta la filiera educativa e non solo nei settori STEM. Le capacità tecniche saranno fondamentali, ma la formazione umanistica consentirà di governare tale tecnologia. Secondo Edward Wilson, biologo statunitense, «siamo caratterizzati da emozioni paleolitiche, istituzioni medievali e tecnologie semidivine». È tempo di cambiare, arrivando a colmare questo gap.
Il presente articolo è tratto dall’edizione 2024 di LINC, “Post Realtà”, uscita lo scorso giugno. L’immagine di copertina è una delle illustrazioni 3D realizzate da Studio Cirasa per l’occasione. Scarica il magazine completo qui
Maximo Ibarra è Amministratore Delegato di Engineering. Già Rettore dell’Università LUISS Guido Carli, Andrea Prencipe è Economista.