È il tempo delle città superstar a discapito di quelle secondarie. Così la geografia dell'innovazione va verso logiche di concentrazione.

C’erano una volta i vecchi distretti industriali, che in Italia rappresentavano un fiore all’occhiello del sistema economico. E oggi? In quei luoghi non si generano più imprese innovative e gli asset immateriali come le idee e la finanza tendono a concentrarsi in nuove economie di agglomerazione. L’analisi di Giulio Buciuni, docente in imprenditorialità e innovazione al Trinity College di Dublino e in libreria con “Innovatori Outsider” per Il Mulino. 

Oggi lei è Professore Associato in Entrepreneurship & Innovation presso il Trinity College di Dublino, dove dirige anche il Master in Entrepreneurship. Ci può raccontare il suo percorso?

Arrivo nel mondo accademico quasi per errore. Lavoravo come consulente negli Stati Uniti, ma la crisi finanziaria del 2008 mi ha costretto a ripensare il mio percorso professionale. Quindi ho deciso di fare un dottorato e attraverso vari giri per il mondo sono infine giunto a Dublino.

La sua ricerca si concentra sullo sviluppo di ecosistemi imprenditoriali e sulla geografia dell’innovazione. Come si definisce, innanzitutto, un ecosistema imprenditoriale e quali sono state fino a oggi le direttrici geografiche dell’innovazione?

Un ecosistema imprenditoriale è costituito da un insieme di attori pubblici e privati che sostengono l’iniziativa economica di una serie di imprenditori. Al centro di un ecosistema imprenditoriale vi è dunque l’imprenditore con le sue decisioni e le sue scelte strategiche. La geografia dell’innovazione è cambiata radicalmente negli ultimi anni, accentrandosi sempre di più in pochi grandi spazi metropolitani – le cosiddette città superstar. Tuttavia, questi spazi metropolitani spesso crescono anche a discapito di altri luoghi – le cosiddette città secondarie – che rischiano così di occupare posizioni periferiche nella nuova geografia dell’innovazione.

In che modo gli ecosistemi variano da Paese a Paese? Esiste un “profilo nazionale” di questi distretti? Si pensi, per esempio, al tessuto produttivo italiano, ma anche europeo, in relazione a quello statunitense.

Gli ecosistemi possono variare da Paese a Paese e riflettere investimenti in specifici settori industriali. Tuttavia, nell’economia della conoscenza attuale stiamo osservando una crescente convergenza tra i vari ecosistemi mondiali, con al centro la tecnologia e il digitale. Le nuove imprese di successo infatti sono quasi sempre startup tecnologiche, indipendentemente dal contesto geografico. I distretti italiani non sono oggi in grado di generare sistematicamente nuove imprese innovative. Qualche esempio virtuoso esiste e ne parlo nel mio ultimo libro, ma la strada da fare è ancora molto lunga.

Nel 2023 ha scritto con Giancarlo Corò il volume Periferie competitive: stiamo assistendo a una rivincita delle cosiddette città secondarie sulle grandi metropoli?

Affatto. Semmai è vero il contrario. La distanza tra le grandi città e le città secondarie si sta ampliando generando nuove forme di disuguaglianza economica e sociale.

Che ruolo ha in tutto questo la digitalizzazione e il passaggio a un’economia con asset sempre meno materiali?

É un fattore fondamentale. Gli asset immateriali come le idee e la finanza si spostano infatti con maggiore facilità e tendono a concentrarsi nelle città superstar, di fatto abilitando nuove economie di agglomerazione.

Guardando allo scenario economico e geopolitico attuale, quali sono, dal suo osservatorio, le strategie da implementare per rafforzare questo modello di sviluppo?

Investire nella produzione di conoscenza complessa, che è alla base della generazione di innovazione, è essenziale. In particolare, è fondamentale attirare imprese multinazionali che investono in funzioni intangibili e knowledge intensive, supportare le discipline STEM nelle università e mettere a punto sistemi di finanziamento pubblici e privati a supporto delle nuove imprese.

Cosa consiglierebbe a un giovane che sta per entrare per la prima volta nel mondo del lavoro? A un professionista già affermato, invece?

A un giovane di aprirsi al mondo e di formarsi attraverso varie esperienze di studio e professionali, cercando di sviluppare un pensiero critico e capacità relazionali oltre che tecnico-operative. A un professionista affermato, invece, di non sentirsi vincolato a situazioni o contesti di lavoro esistenti, ma di aggiornarsi continuamente, mettendo in discussione i propri obiettivi e non rassegnandosi a impieghi o professioni subottimali. Il mondo è grande e le opportunità sono molte.

 

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Giulio Buciuni è Professore Associato in Entrepreneurship & Innovation presso il Trinity College di Dublino, dove è coordinatore scientifico del programma di formazione Executive. È stato Visiting Research Fellow del Center on Global Value Chains presso la Duke University dal 2011 al 2022. Prima di entrare a far parte della Trinity Business School, ha lavorato come ricercatore presso l’Università di Toronto e presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. I risultati delle sue ricerche sono stati pubblicati in alcune delle principali riviste scientifiche internazionali come Entrepreneurship and Regional Development, Global Strategy Journal e Journal of Economic Geography. Per Il Mulino ha scritto Periferie Competitive (2023) e Innovatori Outsider. (2024).

 

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